Borsalino, dalle stelle alla bancarotta
Fallimento per l'azienda di cappelli dei divi
Quando incrociamo uno che indossa un cappello di feltro dalla larga tesa viene da pensare: porta il borsalino, anche se è prodotto chissà dove e non nella fabbrica aperta ad Alessandria centosessant'anni fa da Giuseppe Borsalino e dal fratello Lazzaro, il cui figlio poi se ne andò sbattendo la porta e fondando la Borsalino fu Lazzaro, altra fabbrica di cappelli.
Ieri gli ottanta operai hanno continuato a lavorare nella fabbrica di Spinetta Marengo, frazione della città piemontese, ma il destino dell'azienda sembra segnato. Il tribunale di Alessandria ha respinto ieri la richiesta di concordato dell'Haeres Equita srl, un fondo partecipato di Philippe Camperio che ha in affitto la fabbrica dopo il crac del precedente titolare Marco Marenco e l'avvio della procedura di concordato in continuità che ha consentito il prosieguo della produzione. Il fallimento infatti non cancella l'affitto del ramo d'azienda da parte dell'imprenditore italo-svizzero, che ha sempre manifestato l'intenzione di vole acquistare l'azienda. Un progetto che pare definitivamente naufragato, ciò che vorrà dire quasi sicuramente la perdita del posto di lavoro per i 130 lavoratori della fabbrica piemontese e dei negozi, circa un ventesimo dei 2500 che, nell'epoca d'oro di Borsalino, nei primi decenni del Novecento, facevano dell'azienda la più grande realtà imprenditoriale di Alessandria, capace di trasformare il volto della città a cui donò l'acquedotto, la rete fognaria, un ospedale, un sanatorio, uan casa di riposo e anche l'università, nella vecchia palazzina degli uffici nella storica sede di Borsalino in corso Cento Cannoni.
Giù il cappello, urla il mondo in coro. Perché Borsalino era un mito non solo in Italia. A indossare i beaver, le bombette, le tube, i cappelli in paglia e i panama realizzati dalle «borsaline» le abili donne che monopolizzavano con la loro manualità la fabbrica, erano statisti, papi, presidenti, capitani d'industria. Benito Mussolini, Harry Truman, Hirohito, Winston Churchill, Pancho Villa, Napoleone III, Gianni Agnelli, Silvio Berlusconi, papa Giovanni XXIII, Al Capone, Ernest Hemingway, Gabriele D'Annunzio, Giuseppe Verdi. Anche se fu il cinema a far diventare il brand alessandrino un mito. Furono Humphrey Bogart e Ingrid Bergman in Casablanca, ciascuno con un cappello Borsalino in testa, e a immaginare quella scena senza copricapo sarebbe cambiata la storia del cinema. Alain Delon pensò addirittura di dedicare al cappello e a quel fascino borderline che l'ampia tesa garantiva, dapprima un film (Borsalino, 1970) e poi un sequel (Borsalino and Co, 1974) con al traino l'inesorabile parodia di Ciccio e Franco, Il Clan dei due Borsalini (1971).
Di Borsalino è piena l'iconografia hollywoodiana: Harrison Ford in Indiana Jones, Johnny Depp in Nemico Pubblico, Robert De Niro ne Gli Intoccabili. Da noi Marcello Mastoianni in Otto e 1/2 di Federico Fellini, uno che si faceva fare un modello tutto per sé, e Roberto Benigni in Johnny Stecchino, infine Toni Servillo nella Grande Bellezza. Poi Gary Cooper, Robert Redford, Orson Welles, Charlie Caplin, Alberto Sordi, Vittorio Gassman.
Il declino di Borsalino iniziò con il diffondersi dell'automobile e di costumi meno formali. Continuò quando il cappello bello si trasformò da oggetto quotidiano in vezzo da eccentrico. Le vendite scesero, i due milioni di pezzi prodotti ogni anno furono un'utopia. Nel 1987 l'ultimo erede della famiglia, Vittorio Vaccarino, vende, i cappelli finiscono schizzati dal fango di Tangentopoli, perché quote azionarie sono in mano al cassiere del Psi milanese Silvano Larini e dal presidente Eni Gabriele Cagliari. L'azienda finisce all'imprenditore astigiano Marco Marenco, che va in rovina per colpa delle aziende del ramo energetico, ma la Borsalino è nel mucchio e paga pegno. «Credo che sia l'inizio di una bella amicizia», dice Bogart nella scena finale di Casablanca all'ombra del suo Borsalino. E noi crediamo che sia la fine di una bella leggenda.