60 anni senza Marilyn Monroe, il mito che non colmò il vuoto del padre
Oggi la bionda per eccellenza avrebbe 96 anni
Erano le 3.30 circa della mattina della notte tra il 4 e il 5 agosto 1962, quando Eunice R. Murray, governante e amica di Marilyn Monroe, attraversando per caso il corridoio, si accorse che la luce nella camera da letto dell’attrice era accesa. Bussò, la chiamò, ma non ottenendo alcuna risposta, decise di chiamare lo psichiatra che aveva in cura Marilyn, Ralph Greenson. Questi arrivò di corsa, insieme al medico della diva, Hyman Engelberg, ma una volta entrati nella stanza non poterono che constatarne la morte. «Avvelenamento acuto da barbiturici», appurò poi l’autopsia condotta da Thomas Noguchi, vice-coroner del dipartimento di polizia di Los Angeles. E il caso fu archiviato come suicidio.
Fu così - stando alla versione ufficiale - che, a 36 anni, morì Norma Jean Mortenson. E Marilyn Monroe entrò nel mito.
Oggi la bionda per eccellenza (il docufilm evento di Netflix del prossimo autunno sulla sua vita si intitola proprio Blonde) avrebbe 96 anni e non sappiamo se avrebbe mai vinto un Oscar, se avrebbe avuto dei figli o se avrebbe mai trovato il vero amore. Ma non sappiamo soprattutto se l’evoluzione dell’America nei decenni successivi avrebbe contribuito a donarle quella felicità e stima di sé che un’infanzia infelice le aveva fatto mancare per tutta la vita.
Cresciuta senza padre e con una madre con seri problemi psichici, Norma Jean è stata sempre alla ricerca di qualcosa che riempisse il vuoto che sentiva dentro. Il cinema, la celebrità, la stessa Marilyn in qualche modo lo avevano riempito: «Spesso ho una strana sensazione», disse una volta, «come se stessi prendendo in giro qualcuno, ma non so chi. Forse me stessa, forse gli altri. Appartenevo al pubblico e al mondo, non per il talento o la bellezza, ma perché non ero mai appartenuta a nient’altro o a nessun altro».
Ma la celebrità e l'amore del pubblico non le bastavano. Le era mancato suo padre, e lo cercava in tutti gli uomini che incontrava, facendoli scappare. Ne era consapevole - celebre la sua frase «vanno a letto con Marilyn, si svegliano con Norma Jean» - ma non era in grado da sola di affrontare e superare il problema. Il vuoto dell’anima era una voragine che Norma Jean camuffava con Marilyn, come foglie, rami e arbusti celano le trappole per animali nella giungla.
E alla fine in quella trappola fu lei stessa a cadere: amori sbagliati, amori proibiti (tra cui quel Mr President per cui intonò un celeberrimo Happy Birthday) e amori pericolosi (con Robert Kennedy, per vendicarsi del quale - secondo una teoria - la mafia uccise l’attrice, con un omicidio camuffato da suicidio).
Lei si rifugiava dietro un’immagine di svampita - «una bimba smarrita, matta come un cavallo» la definì il fotografo Cecil Beaton - ma era capace allo stesso tempo di grande consapevolezza («La prego, non mi faccia apparire ridicola», chiese al giornalista di Life a cui rilasciò l’ultima intervista prima di morire), senza farsi probabilmente mai conoscere a fondo da nessuno. «Spesso si sentiva così inadeguata. Ogni tanto soffriva di tremende depressioni e si metteva a parlare di morte», ha raccontato di lei il costumista William Travilla.
Ed è forse proprio questo mistero che l’ha proiettata nel mito. Icona immortale già mentre era in vita, Marilyn seppe diventare quello che il mondo voleva che lei fosse. E la sua immagine, quella dietro cui si rifugiava, è ovunque da sempre. Seriale, come gli arcinoti ritratti di Andy Warhol e la gonna bianca del suo abito sollevata dal passaggio della metropolitana in Quando la moglie è in vacanza. Ancora di più in quest’anno di anniversario, in cui le iniziative in suo onore sono innumerevoli in tutto il mondo.
Dal già citato film evento di Netflix, con Ana de Armas, scritto da Joyce Carol Oates, alla mostra Forever Marylin by Sam Shaw – The Exhibition, in corso fino a settembre alla Palazzina di Caccia di Stupinigi (dove il 4 agosto è prevista una serata speciale), nella quale si possono ammirare foto e memorabilia originali, tra cui oggetti personali, abiti e scarpe.
«Alla morte di Marilyn tutti i suoi averi furono ritirati alla rinfusa in bauli che furono riaperti solo dopo circa 37 anni», ha raccontato proprio all’apertura della mostra torinese il proprietario degli oggetti esposti, il collezionista tedesco Ted Stampfer. «Solo nel 1999 infatti case d’asta come Christie’s e Julien’s resero pubblici i beni personali della Monroe. Si trovarono così reperti assolutamente eccezionali come piccole macchie sugli abiti e perfino le impronte digitali di Marilyn sulla crema viso ormai seccata».
Dei veri e propri tesori, cristallizzati in un eterno presente come il mito della Monroe. Ma che ricordano al mondo che prima di essere un’icona, Marilyn era un donna. Una donna che quel mondo che tanto l’amava non ha saputo o voluto salvare.